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il seguente passo è tratto da Saetti: Frammenti e Architetture
(Salani Edizioni, Firenze 1982)
Trovandosi nella condizione di dover esporre in spazi antichi oggetti «nuovi», si è sempre avvertito questi ultimi come somma, continuità, connessione, concatenamento; e, quindi, accostare o sovrapporre a lesene, portali, altari non suscita in noi profan azione né tanto meno sacrilegio. Anche se tra i disegni di Saetti e l'Oratorio de' Bardi sono trascorsi più di tre secoli, questi vengono «annullati, polverizzati, in una sorta di corto circuito», come lo definì Savioli (1) a proposito dell'allestimento per Le Corbusier a palazzo Strozzi (1963) tra oggetti lontani e vicini mai visti insieme prima; complementarietà di oggetti ancora mai avvenute, che si verificano in questo luogo, in questo tempo, anche se fra artefatti creati in tempi e luoghi distanti tra di loro.
In questo senso 1'«armatura di oggetti nuovi», con la quale saliremo la doppia scala in pietra serena antistante l'oratorio, diviene non solo il segno della riapertura di una porta per tanto tempo tenuta chiusa, ma anche l'auspicio alla continuazione di attività culturali per un contenitore che, se letto alla luce delle esigenze contemporanee, appare «naturalmente» destinato a questa vocazione. Né si potrà trascurare il fatto che la fisionomia, tutta particolare, di un Comune quale Vernio (estremamente frammentato negli insediamenti), richiede un momento anche «fisico» di aggregazione.
La teoria secondo cui gli allestimenti, e più in generale le iniziative effimere, proprio per la loro precarietà divengono stimolo alla ricerca, alla definizione di segni e valenze nuove, è qui ripresentata in termini forse «ingombranti», ma non meno intenzionati a tentare queste «letture concatenate».
La struttura semantica delle opere esposte compie comunque uno «scarto» rispetto al reale, si dice, mette in moto un processo di estraniazione. Ma che cosa è il reale? E in che modo questo scarto gioca con esso?
È forse quello a cui rimandano i disegni e/o quello che immediatamente ci circonda nell'osservarli?
Ipotizzando che lo «scarto» stesso sia la vera proprietà del reale, può, allora, divenire legittimo essere il più aderenti ad esso (immediatamente inafferrabile) nel tra-durlo in quel compromesso tra l'idea di inesistenza e il necessario requisito di utilità (supporto) che diviene qui la trasparenza strutturale, come ideale e/o reale liaison tra oggetti cosiddetti «unici» (disegni esposti e Oratorio) e oggetti «riproducibili» (supporti metallici).
Scriveva Mondrian nel 1922 che «l'idea della nuova rappresentazione, secondo la quale gli oggetti sono da inserire nell'insieme e da annullarsi scambievolmente, sta in completa opposizione con determinati concetti moderni che sono inclini a'considerare come utilitari oggetti già per se stessi artistici».
Tafuri riporta questo passo commentando: «Si ha l'impressione di trovarsi di fronte ad una contraddizione: se le cose, gli oggetti, debbono perdere completamente la loro carica simbolica per essere percepiti nei loro puri valori di relazione, che tipo di attenzione dovrò richiedere all'osservatore: la concentrazione che da lui pretende Parte tradizionale, o quella della mera e semplice percezione quotidiana?» (2).
Il tentativo sta proprio nel cercare di determinare la prima per le opere esposte, «separandola» dalla seconda per gli oggetti da esposizione.
W. Benjamin ricorda che «colui che si raccoglie davanti all'opera d'arte vi si sprofonda; penetra nell'opera, come racconta la leggenda di un pittore cinese alla vista della sua opera compiuta. Inversamente la massa distratta fa sprofondare nel proprio grembo l'opera d'arte» (3). Ora, intendendo l'architettura nella sua accezione più ampia (che quindi abbraccia e comprende la definizione e la progettazione museo-grafica), si può affermare di essa quanto lo stesso Tafuri interpreta a proposito di Benjamin e cioè che «ha sempre avuto (tanto più, aggiungiamo noi, nelle tendenze contemporanee di museografia) come suo modo preciso di entrare in relazione con il pubblico generico quello di una lettura distratta, di un contatto superficiale se non leggero», in quanto «per propria natura, pretende [...] una estrema trasparenza dei processi che hanno condotto alla sua elaborazione, per rivelarli a chi ne segua le narrazioni con distacco» (4).
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